LA NOTTE
DELLA TARANTA VISTA DA LONTANO: RICONCILIAZIONE E PAURA DEL FUTURO
La
quindicesima stagione della Notte della Taranta ha il sapore della
riconciliazione, come se – a distanza di quindici anni – fosse arrivato il
momento di chiudere un ciclo. Per lo meno questa è la sensazione che si prova
osservando l’agosto salentino dall’estero, seguendolo come possibile dai siti,
dai network, dalle dirette e dai racconti.
La prima
riconciliazione sembra arrivare con i direttori delle passate edizioni. Ha il
sapore della rappacificazione con quel segreto di Pulcinella che da sempre
connota questa rassegna. Perché tanto tutti sanno (ma nessuno lo dice) che il
festival è nato, e continua a reggersi, su una miriade sconfinata di conflitti,
scontri, accordi, rotture, strategie e competizioni fra persone e fazioni
diverse. Fra politici e intellettuali, fra operatori e musicisti sul palco, fra
musicisti sul palco e musicisti sotto al palco, fra direttori passati e
direttori futuri e compagnia concertante. La cosa non è affatto un male di per
sé (dallo scontro nasce la creatività, diceva il saggio), ma sembra che sia
vietato sostenere questa posizione, perché tutti dobbiamo affidarci all’idea
che “la Taranta porta sviluppo”. Che ci siano tentativi di riconciliazione con
questa realtà sembra essere provato dalle esternazioni dello stesso Blasi. Pare
che il politico abbia sostenuto – nel convegno organizzato a latere della
kermesse – che “la Notte della Taranta ha molti padri, ma una sola madre” (la
madre sarebbe lo stesso Blasi). Qualcuno gli ha poi fatto notare che la
simbologia era infelice, perché ne discenderebbe che lui è una poco di buono e
che la Notte della Taranta è figlia di buona donna. È un fatto, tuttavia, che
questa frase rappresenti un riconoscimento della natura conflittuale (fra
presunti padri, e fra questi e la disinvolta genitrice). Una riconciliazione, o
almeno un tentativo, e spero che un giorno qualcuno racconti la storia della
Notte della Taranta come storia di confronti, scontri e competizioni fra
diverse personalità e istituzioni, piuttosto che come un esempio unico al mondo
di innovazione della tradizione (probabilmente lo è, ma lo hanno già detto
tutti, dobbiamo continuare a ripeterlo?).
Il
carrozzone/concertone sembra anche riconciliarsi con la sua natura di
spettacolo. Perché non è vero che la Notte della Taranta assomiglia al
concertone del Primo Maggio, assomiglia piuttosto a Sanremo, solo che è in
estate ed è all’aperto. Anche Sanremo, infatti, fa parte del nostro patrimonio identitario,
inoltre mette insieme un’orchestra, ospiti internazionali, direttori,
conduttori, ballerini e cantanti solisti in prima fila. E soprattutto c’è,
nella Notte della Taranta come a Sanremo, il dietro le quinte: il parterre di
politici, le personalità, i giornalisti (non manca nessuno, ci sono anche
quelli che normalmente si dedicano al death metal). E tutti fanno a gara a
occupare i posti migliori (e a farsi fotografare da Pierpaolo Lala). Il grande
spettacolo si riconcilia con la sua natura sanremese approdando anche sulla
homepage di affaritaliani.it, affianco alle tresche di Corona e alle foto
pruriginose, e su youtube. Quest’ultima è una benedizione per i salentini
all’estero: la ricezione è stata ottima quasi sempre e se andava via bastava riavviare
il browser.
Con la
chiamata di Bregovic (“all’attacco!”) è arrivata anche la riconciliazione con
il nocciolo duro della Notte della Taranta, quello da cui tutto è partito. Quei
giovani che, in quelle estati della seconda metà degli anni Novanta, avevano
tra i sedici e i trent’anni e dividevano le loro nottate tra le ronde à la
Torre Paduli, le performance di Vinicio Capossela e i concerti di Goran
Bregovic (lo ha ricordato, con affetto, Pierpaolo Lala nel suo blog). Sono
ancora quei giovani – forse un po’ meno giovani – a costituire il nucleo
centrale delle centomila persone che affollano Melpignano (numeri della
questura, ufficializzati già da giovedì).
Bregovic
arriva quindi a guidare il concertone. E non è che si ricongiungano finalmente
le due sponde dell’Adriatico, come tutti si affannano a ripetere. Questo è
falso: le due tradizioni (le fanfare rom e la musica popolare salentina) sono
diverse, e hanno poche cose in comune, e il perché lo potrebbe spiegare anche
uno studente di etnomusicologia. Così come è falsa l’idea che l’obiettivo
profondo del sound della Notte della Taranta fosse quello di unirsi ai ritmi
balcanici, come sembra suggerire Pacoda nel suo nuovo libro. Non è che la
teleologia del festival fosse quella di accorpare, a chitarre e tamburelli,
trombe e sassofoni (per quello sarebbe bastato il talento di Gianluca
Milanese). Quel che è vero è che si può tentare la fusione tra le due sponde.
Ma questo è un altro discorso, e possiamo provare ad approfondirlo.
Esempi di
incastri fra le due tradizioni (salentine e balcaniche) si possono rintracciare
già nella musica dei Ghetonia di quasi vent’anni fa (su questo io ho già
scritto, e Marco Leopizzi prima di me). In tal senso, il grande assente sul
palco è Admir Shkurtaj (qualcuno obietterà che Admir non è da concertone, ma a
quel punto dovrebbe dimostrare che la Madre
Badessa Band lo fosse). Né mancavano personalità (Claudio
Prima, Redi Hasa, Maria Mazzotta) che già da tempo lavorano per fare incontrare
i due linguaggi musicali. Ma la ricetta del maestro, annunciata con ampio
anticipo, era un po' diversa: rinunciava quasi totalmente agli strumenti
armonici, lasciando spazio all’incontro fra percussioni e fiati.
Il risultato
è che il ruolo delle voci è stato messo in primo piano: i timbri vocali vengono
esaltati dall’asciuttezza del suono complessivo. Questo è un bene assoluto,
perché ci sono – nell’ensemble – delle vocalità uniche, eccezionali, sia nella
schiera femminile che in quella maschile. Epperò, in assenza di strumenti
armonici, il cui ruolo è pur sempre quello di sostegno e guida, è stato
difficile trovare un collante; il maestro concertatore è riuscito solo
raramente a ottenere un amalgama uniforme. Quando c’è riuscito, il risultato è
stato esaltante, ottenuto grazie al superbo contributo del flauto di Giulio Bianco e delle corde di Gianluca Longo.
Nel complesso
si è riscontrata una grande mancanza di coesione, in particolare nei primi
brani. Dopo l’intervento delle mondine, il timbro generale (e forse anche
l’umore) si è un po’ assestato. L’entrata in campo della banda di Racale, poi,
ha dato vita a un’esperienza sonora potentissima. Si andava sul sicuro:
“Kalasnjikov” è come la Divina Commedia, tutti sanno come inizia. E una volta
che si inizia bene, un modo per continuare lo si trova sempre. Così come
funziona sempre affidarsi alle individualità: la parentesi con cinque uomini
sul palco – Paglialunga, Castrignanò, Amato, Licci e Cavallo –, a darsi
battaglia a colpi di tamburelli e acuti, ha tenuto tutti attaccati allo schermo
(e poi venitemi a dire che la competizione non ha un ruolo importante nelle
pratiche musicali salentine!).
Quello che è
stato invece insostenibile, in questa edizione, è il gran numero di errori.
Stecche e fuori tempo, per non menzionare i finali scoordinati, erano dovuti –
ovviamente – alla difficoltà tecnica di conciliare i ritmi e le atmosfere
vocali di due tradizioni musicali diverse. Ma gli errori sono dovuti in primo
luogo al poco tempo dedicato alle prove e alla costituzione del repertorio.
Quello che è mancato, in fondo, è stata proprio l’orchestra intesa come unità
sonora. Questo punto, a distanza di quindici anni, è tanto più dolente in
quanto ormai quelli sul palco di Melpignano sono dei grandi musicisti. Sono
adulti, si sono formati in centinaia di esibizioni, sono creativi, preparati e
professionali. Tant’è che sulla faccia di ciascuno di loro, per quanto nascosta
dal sorriso d’ordinanza, si scorgeva (altro vantaggio di seguire la
manifestazione su youtube) l’espressione d’imbarazzo per gli sbagli tecnici che
continuavano a ripetersi.
Questo è
quello che dispiace di più, alla fine di un’edizione tutto sommato ricca di
spunti musicali e co-presenze. Ma questo, a mio parere, è il grande problema
della Notte della Taranta, che mi auguro qualcuno decida di affrontare arrivati
al giro di boa del quindicesimo anniversario. La questione è che non esiste
un’orchestra: esistono grandi solisti, più o meno in grado di coordinarsi
insieme nel suonare brani conosciuti da tutti, ma che però non hanno il tempo –
e non sono messi in condizione – di suonare insieme, di diventare una macchina
affidabile al servizio del maestro concertatore di turno. Mi piacerebbe veder
suonare quei musicisti come un solo strumento, come i Berliner Philharmoniker,
e non come una all-stars qualsiasi, in grado di affidarsi alla bravura
individuale e a poco altro. Per ottenere una vera orchestra ci vuole un vero
impegno da parte della Fondazione: un impegno concreto, continuo e determinato.
Se quei musicisti, pur mantenendo le specificità personali e la competitività
degli estri artistici, fossero messi nella condizione di suonare come
un’orchestra, allora diventerebbero davvero un esempio da esportare. Non solo:
costituirebbero anche una guida per le nuove generazioni, a cui potrebbero
trasmettere i segreti della loro professione. I giovani musicisti più dotati
diventerebbero poi nuovi elementi dell’orchestra. Così la Notte della Taranta
porterebbe davvero quello sviluppo di cui tanto si parla.
Il futuro,
però, porta anche preoccupazioni. Il sito di affaritaliani (a quanto pare
abbastanza informato e piuttosto influente) lancia il nome di Renzo Arbore come
maestro concertatore per la prossima edizione. Sono convinto che il nome del
leader non sia importante quanto la costituzione di una vera orchestra, ma se
proprio dobbiamo pensare al conduttore, vi prego, lasciate perdere l’illustre
foggiano. Renzo Arbore è un eroe nazionale nel campo della diffusione della
cultura musicale. E lo è in almeno tre generi musicali (il pop degli anni
Sessanta, il jazz, la musica popolare urbana). Come tutti gli eroi, va onorato
e preso d’esempio, ma non lo si chiama a dirigere le truppe. Il mondo è pieno
di menti musicali brillanti e illuminate, e ormai il concertone ha ottenuto un
certo richiamo. La mia proposta allora, se Blasi, Bray e Torsello vogliono
ascoltarla, è di fare un bando internazionale aperto a tutti i potenziali
maestri concertatori (jazzisti, direttori d’orchestra o arrangiatori di musica
etnica) e valutare le proposte in base al curriculum e alle idee musicali che
giungeranno in sede da tutto il mondo (nonché dai locali). Questo potrebbe
essere un buon modello per il futuro. Da esportare (forse), ma soprattutto da
fare realmente nostro.
Gianpaolo Chiriacò
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